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Se il Terzo settore vuole innovare la smetta di chiamarsi così. Intervista a Mauro Magatti.

11-10-2017 14:05

Redazione

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«Finché il Terzo settore si definirà così, avrà ben poco da dire sul versante dell’innovazione». E non si tratta di una questione definitoria, ma sostanziale pe

«Finché il Terzo settore si definirà così, avrà ben poco da dire sul versante dell’innovazione». E non si tratta di una questione definitoria, ma sostanziale per Mauro Magatti, uno dei più importanti sociologi contemporanei, docente della Cattolica di Milano, autore di "Cambio di paradigma" e relatore delle prossime Giornate di Bertinoro (evento al quale Consorzio Sol.Co. e Fondazione Èbbene prenderanno parte) con un intervento intitolato "Co-Economy. Proposte per un cambio di paradigma economico".


Professore, cos’è la "Co-Economy": un aggiornamento dell’economia cooperativa o qualcosa di diverso?
Partiamo da un principio basilare. L’economia si fa sempre insieme. Non si può fare economia in modo individuale. Cambiano le formule, cambiano gli orientamenti culturali, cambiano i contesti, ma da questo principio non si fugge. Una volta si parlava di economia politica, ma il senso è quello. Quello che bisogna fare oggi è tornare a dare peso a quel "Co" dentro un alto modello diverso da quello che ha prodotto la crisi del 2008.
Crisi che di cui si vede la luce in fondo al tunnel?
Io penso che la crisi non sia per nulla superata. È una crisi economica che si è rivelata anche politica e culturale e ha portato alla fine di un’epoca. Fino ad allora il neoliberismo era stato il modello al quale avevamo affidato le nostre prospettive di crescita economica e di benessere. Oggi non è più così, ma non abbiamo ancora recuperato né crescita, né benessere.
Che strada imboccare allora?
Occorre costruire un modello che nell’era della globalizzazione e della digitalizzazione sia di nuovo in grado di produrre valore e quindi ricchezza. E oggi il valore e quindi la ricchezza si producono creando alleanze fra mondo diversi. Questo è il fronte su cui si vince la competizione.
Coglie segnali incoraggianti in questo senso?
Io vedo tre attitudini diverse. La prima è quella di chi interpreta i legami in chiave difensiva: i populismi e i nazionalisti sono il frutto di questa ottica. La seconda è quella di chi non si sta accorgendo di nulla e prosegue come se tutto fosse come prima. La terza invece è quella di chi sta acquisendo la necessaria consapevolezza. Penso ad alcune imprese che stanno curando con attenzione la relazione con i lavoratori e con il loro territorio. Ma penso anche ai giovani, ma anche a chi ha una certa età che sempre di più cercano la realizzazione di sé (professionale e non) impegnandosi nell’ambito della sostenibilità ambientale e sociale. Spesso però si tratta di fasce di popolazione medio alte e in ogni caso sono segnali ancora oggi molto dispersi.
Una legge come quella la riforma del Terzo settore, può contribuire a dare un quadro d’insieme che possa sostenere lo sviluppo delle realtà più innovative?
Il punto non è il Terzo settore, che finché continuerà a chiamarsi in questo modo avrà poco da dire. E non lo è nemmeno la cooperazione. Da una parte c’è il "venduto" dentro cui sta tutto quello che presuppone una relazione fra l’impresa privata e il consumatore privato. Dall’altra c’è il "mediato", che regola la relazione fra lo Stato e gli altri soggetti sociali sotto la bandiera dell’universalismo. Io sostengo che l’asse portante di un nuovo paradigma è tutto ciò che sta in mezzo a questi due poli, ma che non può essere rappresentato da quell’area residuale che nel vecchio modello è definito come Terzo settore.
Fonte: Vita.it
Foto di copertina

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